Americanah di Chimamanda Ngozi Adichie


Un'autrice davvero interessante, apprezzata anche dal New York Times e pubblicata in Italia da Einaudi. 
Questo è il suo terzo romanzo. Ho letto il primo L'ibisco viola e ho intenzione di leggere presto il secondo Metà di un sole giallo.
Americanah è un romanzo accuratamente costruito con continui passaggi di tempo,  spazio e protagonista della narrazione. Anche se Ifemelu è la protagonista principale.
Il libro è scritto in terza persona ma a volte mi fermavo per rendermene conto perché l'autrice ti spinge ad immedesimarti in Ifemelu che a volte ti dimentichi che non è lei che racconta.
Ifemelu è una ragazza nigeriana che si trasferisce in USA per continuare gli studi in quanto nella sua nazione sono continui gli scioperi degli insegnanti. Quando lascia la Nigeria è felicemente innamorata di Obinze ma le esperienze e le fatiche americane la spingeranno ad allontanarsi da lui.

La trama del romanzo è interessante e varia ma la caratteristica che mi è piaciuta di più è lo sguardo dell'autrice sulla realtà americana, nigeriana e inglese. Soprattutto quando parla degli statunitensi ha una capacità di raccontarceli, ed ironizzare sul loro comportamento, che mi ha spinto a rileggere alcune parti e ad andare a leggere l'originale per apprezzare meglio i concetti.

Oltre al "Questi americani non sanno parlare inglese" vorrei lasciarmi le parole sulla scuola e sull'uso del termine excited:

“In America la scuola era facile, i compiti si inviavano per mail, le aule avevano l’aria condizionata, i professori erano sempre disposti a concedere prove di recupero. Ma Ifemelu non era a suo agio con quella che i professori definivano «partecipazione», e non capiva perché dovesse contribuire al voto finale; era solo un modo di far parlare e parlare gli studenti, e di sprecare ore di lezione in parole ovvie, vuote, a volte senza alcun significato. Doveva essere perché, sin dalla scuola elementare, agli americani veniva insegnato che a lezione dovevano dire qualcosa, qualsiasi cosa. Quindi sedeva con la lingua irrigidita, circondata da studenti comodamente ripiegati sulle sedie, tutti imbevuti di conoscenza, non sulla materia oggetto delle lezioni, ma su come stare a lezione. Non dicevano mai «non lo so». Piuttosto dicevano «non sono sicuro», frase che non dava alcuna informazione, ma suggeriva la possibilità di una conoscenza. E caracollavano, quegli americani, camminavano senza alcun ritmo. Evitavano di dare indicazioni dirette: non dicevano «chiedi a qualcuno di sopra», dicevano «magari potresti rivolgerti a qualcuno di sopra». Se inciampavi e cadevi, se ti strozzavi, se la sfortuna suonava alla tua porta, non dicevano «mi dispiace», chiedevano «va tutto bene?» anche se era ovvio che non andava bene per nulla. E se dicevi «mi dispiace» quando si strozzavano o inciampavano e cadevano o si scontravano con la sfortuna, ribattevano con gli occhi sbarrati per la sorpresa: «Oh, non è colpa tua». E poi abusavano della parola «eccitato», un professore eccitato per un nuovo libro, uno studente eccitato per una lezione, un politico in tv eccitato per una legge; c’era sempre troppa eccitazione. ”

Su queste parole, invece, dovrebbero fermarsi a riflettere anche molti italiani:

Alexa, e gli altri ospiti, e forse anche Georgina, capivano tutti la fuga dalla guerra, dal tipo di povertà che distruggeva l’animo umano, ma non avrebbero capito il bisogno di scappare dall’opprimente letargia dell’assenza di scelta. Non avrebbero capito perché persone come lui, cresciute con cibo e acqua abbondanti ma impantanate nell’insoddisfazione, abituate fin dalla nascita a guardare altrove, da sempre convinte che la vita vera fosse altrove, ora fossero decise a fare cose pericolose, illegali, come partire; nessuno di loro moriva di fame, o subiva violenze, o veniva da villaggi bruciati, ma aveva semplicemente sete di scelte, di certezze.

Titolo originale: Americanah (2013), traduzione di Andrea Sirotti

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